martedì 12 marzo 2013

i registi 21 - Jack Lee Thompson

JACK LEE THOMPSON
L'uomo che faceva tremare le montagne

Regista inglese attivo per quasi quarant'anni di carriera sia in patria che a Hollwood, Jack Lee Thompson (1914 - 2003) a voler essere generosi è stato un artigiano tuttofare del cinema. A voler essere onesti è stato un regista mediocre. Dei quasi cinquanta film da lui diretti si notano le molte collaborazioni con Charles Bronson, con cui però condivise soprattutto la parte finale e più opaca della carriera. Gli unici suoi film che non sembrano caduti nel dimenticatoio sembrano essere il polpettone bellico I cannoni di Navarone del 1961 e il thriller Il promontorio della paura del 1962, senza dubbio il suo film migliore, ma che probabilmente oggi deve gran parte della sua relativa fama al remake del 1991 di Scorsese Cape Fear.

Meritano però una piccola riscoperta i suoi due western, per altro abbastanza noti (il primo è stato un classico delle programmazioni estive televisive degli anni 80 e 90). Non certo due capolavori, ma due pellicole divertenti e fuori misura, accomunate da caratteristiche singolari per il genere: inserti onirici, un senso dell'azione più vicino al classico avventuroso, l'affascinante visione di un selvaggio West visto come una terra di leggende al limite del fantasy e soprattutto una certa tendenza al catastrofico, con sequenze in entrambi le pellicole di canyon e montagne che crollano.



1969 L'oro di Mackenna (Mackenna's Gold)
di Jack Lee Thompson con Gregory Peck, Omar Sharif, Telly Savalas, Camilla Sparv, Keenan Wynn, Julie Newmar, Ted Cassidy, Lee J. Cobb, Raymond Massey, Burgess Meredith, Anthony Quayle, Edward G. Robinson , Eli Wallach, Eduardo Ciannelli

Entrato in possesso di una mappa di un leggendario canyon pieno d'oro, l'onesto e pragmatico sceriffo Mackenna la distrugge ritenendola fasulla. Così non la pensano però tutti gli altri personaggi del film che, accecati dal miraggio dell'oro, lo coinvolgeranno suo malgrado in una sanguinaria caccia al tesoro.

Nell'anno in cui esplodeva il fenomeno del western crepuscolare e revisionista, soprattutto grazie all'enorme successo commerciale di "Butch Cassidy", questo western avventuroso dalla trama abbastanza atipica provava a prendere un'altra via per la rinascita commerciale del genere (sul suolo americano), ovvero quella di una insistita e un po' bislacca esasperazione spettacolare, che col senno di poi sembrava anticipare la moda dei film catastrofici degli anni 70 e un certo gusto anni 80 per l'eccesso auto-ironico. È un film in effetti all'insegna dell'esagerazione: esagerato nella durata, esagerato nel cast straboccante di facce note, esagerato nel numero e nella caratterizzazione dei personaggi, esagerato nelle scelte di regia, che ammassa effetti ed effettacci tramite lenti deformanti, vezzi di montaggio, effetti speciali. Il risultato è tanto grossolano quanto in definitiva gustoso.



Si respira un'atmosfera vagamente fantasy. Il film è tutto ambientato in esterni (anche se alcune sequenze sono palesemente girate in studio) e lascia il segno la visione di un West come terra di nessuno, fatta solo di rocce, canyon, montagne, antichi e misteriosi pueblo abbandonati. I vasti e desolati paesaggi in cui si muovono i personaggi sembrano inospitali scenari lunari. O meglio ancora marziani, tenendo conto che i colori dominanti della pellicola sono il rosso, l'arancione, l'ocra.

Memorabile il finalone nel canyon dell'oro, che riesce a trasmettere un discreto senso di angoscia giocando sul senso di vertigine provocato da cavalcate su precipizi e arrampicate su pareti rocciose. Decisamente spostato verso il cinema fantastico, per non dire nel peplum, la sequenza catastrofica in cui un devastante terremoto distrugge il canyon. Probabilmente l'uso evidente di modellini e pietroni di cartapesta doveva apparire già piuttosto goffo all'epoca, anche se la scena doveva comunque fare la sua porca figura nella spettacolarità del cinemascope. Sequenza che oggi può risultare insopportabilmente ingenua o simpaticamente "camp" a seconda della disponibilità di chi guarda.



La sceneggiatura è tratta da un romanzo di Will Henry, adattata dallo sceneggiatore Carl Foreman, che è anche produttore del film insieme al compositore di tante celebri colonne sonore western Dimitri Tiomkin (in questo caso però la colonna sonora è dell'allora più moderno Quincy Jones). Ed è proprio la sceneggiatura il maggior punto debole del film. Incerta nella soluzione di alcune sequenze (a ben vedere anche la famosa e spettacolare sequenza della scalata al pueblo e il conseguente duello tra Gregory Peck e Omar Sharif si risolve in un nulla di fatto), si incarta decisamente nella parte centrale, quando ha l'ambizione di diventare una specie di metafora alla Moby Dick sulla cupidigia umana, mettendo in scena tutto un campionario di personaggi ossessionati in vario modo dall'oro. È qui che entra in scena uno stuolo impressionate di facce note di quegli anni: Eli Wallach, Lee J. Cobb, Keenan Wynn, Raymond Massey, Burgess Meredith, Anthony Quayle, Edward G. Robinson, Eduardo Ciannelli... splendidi faccioni da cinema, ma troppi e troppo ingombranti. E infatti dopo la lunga sequenza che li introduce, esaurita la loro funzione narrativa, vengono subito tutti sbrigativamente massacrati dagli apache. L'unico che riesce a ritagliarsi il suo spazio è Telly Savalas, nel suo solito ruolo di marpione traditore.



Gregory Peck fa la sua solita figura, ma soffre l'inevitabile inerzia di un personaggio che per tutta la durata del film è ostaggio dei suoi avversari, mentre risulta decisamente incolore il personaggio della bella biondina che deve proteggere. Rubano quindi la scena con tutta comodità i personaggi negativi, a cominciare dal bandolero Colorado di Omar Sharif, il quale per una volta lontano dal suo solito cliché romantico dimostra che avrebbe potuto avere una carriera anche come simpatica carogna. Notevoli anche i due freak indiani che lo affiancano, impersonati da due piccoli miti televisivi di quegli anni: il gigantesco Ted Cassidy, noto per il personaggio di Lurch, il maggiordomo stile creatura di Frankenstein della Famiglia Addams, impersona il tenebroso guerriero apache Hachita, mentre la conturbante Julie Newmar, nota come la Catwoman del Batman televisivo con Adam West, impersona l'inquietante squaw Hesh-Ke, muta, sfregiata e psicopatica; la sequenza in cui fa il bagno nuda e poi lotta con Peck in un laghetto è di quelle che non si dimenticano facilmente.



1977 Sfida a White Buffalo (The White Buffalo)
di Jack Lee Thompson con Charles Bronson, Jack Warden, Will Sampson, Kim Novak, Clint Walker, Stuart Whitman, Slim Pickens, John Carradine

Uno stanco e delirante Wild Bill Hicock si associa ad un vecchio trapper per andare a cacciare sulle Colline Nere un mostruoso bisonte bianco che tormenta i suoi sogni e fa stragi negli accampamenti indiani. Troveranno un riluttante alleato in Cavallo Pazzo, anche lui in cerca del mostro per vendicare la morte della figlioletta.

Film che gode in generale di una pessima fama, maltrattato un po' ovunque. Si tratta invece di un'altra pellicola curiosa e originale, girata con uno stile grezzo e votato (ancora) all'esagerazione, ma a suo modo efficace e con qualche bella idea. Rispetto al titolo precedente può contare su un protagonista decisamente più carismatico e su una storia più coerente e compatta, adattata dallo sceneggiatore Richard Sale da un suo romanzo "The White Buffalo". Visivamente è quasi un contraltare de "L'oro di Makenna", con i colori caldi, luminosi e rossastri che vengono rimpiazzati da colori gelidi, invernali e bluastri. Una cupezza cromatica che crea un'affascinante atmosfera oscura e plumbea, che opprime tutti i personaggi dalla prima all'ultima sequenza. Tutto sembra svolgersi in una dimensione notturna e irreale, che ha poco del western e molto del racconto pauroso raccontato attorno al fuoco. Fanno il loro bell'effetto come al solito le ambientazioni innevate.



I riferimenti della trama a Moby Dick sono chiari, come è chiaro anche il volersi agganciare ad un blockbuster dell'epoca come "Lo squalo" di Spielberg. Thompson non possiede certo la maestria di Spielberg nella costruzione della suspense, ma procede piuttosto per grezzo accumulo di effettacci, andando a parare più dalle parti di un film di mostri che di un thriller. Non va per il sottile, ma questo è un pregio, neanche nel descrivere un West fosco e sordido, quasi anticipatore di quello di Dead Man (la sequenza iniziale dell'arrivo in treno di Charles Bronson ricorda non poco un'analoga sequenza del film di Jarmusch).

Usa l'accetta anche per intagliare i suoi personaggi, dei veri concentrati di luoghi comuni e stereotipi, ma che in un certo rozzo modo riescono a diventare delle figure archetipiche da leggenda. Charles Bronson è quasi la caricatura del pistolero funereo, un Wild Bill allucinato e dark, che accoppa gente a carrettate e si sveglia dagli incubi sparando. L'ottimo caratterista Jack Warden interpreta il vecchio trapper impellicciato, un po' saggio e un po' cinico. Il grande (in tutti sensi) Will Sampson, l'indimenticabile Grande Capo di "Qualcuno volò sul nido del cuculo", interpreta un Cavallo Pazzo coraggioso e pronto al sacrificio. Anche stavolta il cast di contorno è affollato di facce e nomi noti, ma usati con più equilibrio e criterio rispetto a "L'oro di Mackenna".



Uno degli elementi più criticati del film è la presunta mal riuscita del bufalo bianco creato da Carlo Rambaldi. In effetti non c'è inquadratura dove la creatura non riveli il suo essere un pupazzone meccanico che si muove su dei binari (persino ben visibili in un'inquadratura durante la sfida finale). Ma proprio grazie alla sua visibile artificiosità il bestione diventa un elemento talmente incongruo e fuori posto che finisce per accrescere l'atmosfera onirica del film. Sfidando spesso il ridicolo involontario l'animale viene caratterizzato come un'autentica forza della natura, capace di dilatare il tempo e lo spazio con la sua presenza e di provocare frane con il solo muggito.
Identico effetto straniante fanno le numerose sequenze visibilmente girate in studio. Come accadeva nei film hollywoodiani classici una finzione talmente evidente da diventare più vera del reale, un effetto che qui accentua ulteriormente il clima da fiaba nera.



Lascia il tempo che trova il lato crepuscolare della vicenda, con l'improbabile amicizia "segreta" tra Wild Bill Hicock e Cavallo Pazzo, nella realtà storica morti a pochi mesi di distanza, un paio d'anni dopo gli eventi del tutto inventati del film. Tutto sommato se i protagonisti fossero stati dei personaggi inventati il film ne avrebbe giovato.

4 commenti:

  1. Bella scheda. Due film che sinceramente faccio fatica a giudicare in maniera obiettiva in quanto entrambi mi hanno appassionato tantissimo da bambino (quand’ero uno spettatore decisamente poco smaliziato). L’oro di Mackenna mi aveva anzi talmente entusiasmato che non più avuto il coraggio di riguardarmelo per intero, per paura di sciuparne il bel ricordo. Ne ho rivisto comunque di recenti alcuni spezzoni (lo replicano di continuo sulle tv private) e confesso di averlo trovato appunto ancora gustoso, e anche la celeberrima scena del bagno dell’indianina Julie Newmar ha mantenuto intatto tutto il suo appeal.

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  2. Due curiosità sull'Oro di McKenna:
    1-A Clint Eastwood fu offerto un ruolo nel film che l'attore rifiutò preferendo dedicarsi a un film dal budget molto più modesto "Hang 'Em High" (Impiccalo più in Alto).
    2-Fra i componenti della troupe del film c'era anche un giovane studente di cinema dell'università del South California di nome George Lucas che realizzò anche un breve (e splendido) cortometraggio "6.18.67", lo potete vedere qui, anche se la qualità è piuttosto scadente: http://www.youtube.com/watch?v=OqFOUioAz6k

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  3. @Mauro: anche a me da bambino piaceva tantissimo "L'oro di Mackenna", infatti lo lego a numerose situazioni della mia infanzia. Tutto sommato non perde molto a rivederlo, ma certo si notano tutti quei difetti che da bambino non si notano.

    @Leno: grazie per le curiosità, soprattutto quella riguardante Lucas. Il cortometraggio è molto affascinante anche se si vede che è il tipico prodotto di uno studente di cinema.

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  4. @Tommaso: Sì, ovviamente all'occhio odierno e dopo decenni di prodotti simili il minifilm può apparire datato ma all'epoca i cortometraggi sperimentali e antinarrativi di Lucas (vedere anche i più noti "A Man and his Car" e "Life")furono molto innovativi e divennero ben presto un punto di rifermento per gli studenti delle neonate scuole di cinema che si stavano diffondendo in America.

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